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Rivista 109_L'arte di Claudio Spini

Talmente porosa e rudimentale è l’arte della critica artistica che, dopo venti secoli di esercizio autoritario, quasi mai risulta risolutiva per valutare appieno l’efficacia delle opere che le vengono proposte. È chiaro che le difficoltà di traduzione variano. Ci sono autori – Balla, Severini, Melotti – non inaccessibili all’analisi: non vi è in loro alcuna felicità o tristezza che non si possa spiegare almeno parzialmente. Altri – Sironi, Licini, Morandi – conservano zone rifrangenti a ogni esame. Altri, ancora più misteriosi, non sono analiticamente giustificabili nel loro successo o insuccesso, presso il pubblico. A questa categoria di artisti, che la mera ragionevolezza non riesce a spiegare, appartiene il nostro Claudio Spini. Questo non significa che l’arte di Spini sia meno pittorica, intimista o monumentale di quella di altri; significa invece che è troppo complessa, o forse troppo semplice, per l’analisi. Apparentemente, questa avversione è causata dalla composita varietà della sua produzione; ma sono dell’opinione che un motivo risieda nella graduale e irreversibile insubordinazione alle gerarchie artistiche attuata da Spini a partire dal 1980.
Se prendiamo gli esordi della carriera come pittore, trascorsi senza tema di biasimo e anzi con merito sotto la ferma tutela di Trento Longaretti, si poteva paventare che Claudio Spini avrebbe consumato la giovinezza artistica in una precoce senilità formale, compensata probabilmente da una larga produzione. La competizione per l’assegnazione delle commesse negli anni ’60 era al suo apice, ma il dibattito artistico bergamasco si muoveva entro un perimetro codificato, dove ancora la figurazione era certamente sollecitata dall’astrazione ma, al contempo, si opponeva strenuamente ad abbandonare il proprio linguaggio che si radicava nei primi decenni del ’900. [...]